Da Padova alla costiera ionica, dall’Italia alla Spagna passando per la Grecia, caporalato e sfruttamento in agricoltura sono una questione europea.
Dai kiwi alle fragole, le filiere agroalimentari sono la triste evidenza lavorativo- sociale di una piaga che attanaglia le lavoratrici e i lavoratori del settore vittime di caporalato e sfruttamento in agricoltura.
In Italia, nel dettaglio, la Onlus ActionAid lancia il progetto Cambia Terra Sud, denunciando il gap emerso nei servizi abitativi, sociali e sanitari di quelli che possiamo definire veri e propri ghetti di lavoratori precari e illegali al servizio della campagna per lavori stagionali.
Spesso stranieri, anzi straniere, “Nell’ambito della più generale questione migrante in agricoltura, gli studi evidenziano che le donne straniere versano in una condizione di maggiore vulnerabilità rispetto agli uomini” scrive ActionAid.
Nel 2018, CREA e ActionAid Italia hanno realizzato lo studio “Le invisibili” per indagare il fenomeno della crescente femminilizzazione dell’agricoltura in Puglia, analizzando le condizioni di lavoro delle lavoratrici.
La precarietà dei contratti di lavoro, l’assenza di servizi di welfare dedicati, e reti pubbliche e familiari di supporto fragili, rendono le donne invisibili alle autorità e alle organizzazioni.
In questo contesto, la violenza di genere si profila come una caratteristica strutturale del sistema di sfruttamento delle lavoratrici agricole straniere, più esposte delle italiane a forme di violazione dei diritti umani (abuso fisico, psicologico, economico).
Il problema del caporalato e sfruttamento in agricoltura non ha solo il volto dell’Italia, e il problema si estende a tutto il bacino mediterraneo che traina il settore agroalimentare.
Terra!, associazione ambientalista, redige qualche tempo fa, il report: “E(U)xploitation. Il caporalato: una questione meridionale. Italia, Spagna, Grecia”.
Caporalato e sfruttamento in agricoltura sono il fil rouge che attraversa le campagne d’Europa.
Il report di Terra! segue la fascia mediterranea, in un viaggio – inchiesta in Italia, Grecia e Spagna.
L’esperienza dei campi e dei ghetti del nostro Paese ha spronato Terra! a promuovere progetti di inserimento sociale e lavorativo di soggetti fragili e in stato di bisogno.
La campagna FilieraSporca, ha raccontato le principali distorsioni del settore agricolo italiano.
A partire dalla fine degli anni Ottanta e dopo la Grande Recessione, assistiamo, scrive il documento, alla verticalizzazione delle filiere, alla graduale de-familizzazione delle aziende e l’impiego di manodopera di origine straniera.
Un fattore, quest’ultimo, che accomuna le scelte impiegatizie di tutte le nazioni analizzate.
La centralità dei profitti nell’agroalimentare ha reso necessario il ricorso al lavoro straniero, perché flessibile e malpagato.
Nel Sud Italia, la rivolta di Rosarno attirò l’attenzione dei media e della politica sulle condizioni di migliaia di lavoratori.
“Due leggi nazionali introducono e riformano la norma di contrasto al caporalato e allo sfruttamento del lavoro, che, al netto delle parti ancora inattuate e dell’impianto quasi esclusivamente repressivo, ha rappresentato una conquista anche per tante associazioni, che da tempo chiedevano un cambio di rotta”.
L’intermediazione tra azienda agricola e lavoratore rappresenta un fattore strutturale delle relazioni di lavoro nel settore agricolo e il suo rafforzamento è andato di pari passo con l’espansione dell’agroindustria nel sistema capitalistico dei paesi del Sud.
In Italia i volti degli intermediari sono tanti, dal caporale alle cooperative alle agenzie interinali.
Un sistema quest’ultimo, diventato pervasivo in Spagna soprattutto durante i picchi di produzione, e che spesso, nella corsa al profitto, veicola violenza e irregolarità.
Questi meccanismi di sfruttamento rappresentano il sintomo della debolezza del collocamento pubblico e della mancanza di misure per i lavoratori stagionali nei due Paesi.
Programmi decentralizzati e accordi bilaterali sono alla base della contratación en origen spagnola, con cui i lavoratori stagionali vengono reclutati nei paesi d’origine, creando in Europa una condizione di caporalato e sfruttamento in agricoltura.
Un modello che salda il bracciante ad un datore di lavoro, sulla base di una condizione necessaria e assoluta: il ritorno in patria dopo la stagione di raccolta.
Un imperativo valido soprattutto per le lavoratrici di genere femminile, a cui viene chiesto, tra i requisiti per ottenere il lavoro, di essere madri.
Il legame con un figlio nella patria d’origine è infatti garanzia per il datore di lavoro che la clausola del ritorno a casa sia rispettata.
Un meccanismo intrinsecamente discriminatorio nei confronti delle donne, che fa leva sulla generale sessualizzazione del lavoro di cura: il “modello Huelva”.
In Italia, il fenomeno di caporalato e sfruttamento in agricoltura è contrastato da una legge ad hoc, grazie alle battaglie di sindacati e associazioni.
La 199 del 2016 – la norma “anti-caporalato” – colpisce non solo l’intermediario, ma anche il datore di lavoro che si avvale dei suoi “servizi”, schiavizzando la manodopera.
Ciononostante i numeri del fenomeno sono ancora preoccupanti.
Secondo i dati elaborati dal sindacato Flai Cgil, nelle campagne italiane, oggi, sarebbero 180mila i lavoratori irregolari sotto il ricatto dei caporali.
Leggi anche: Nanotecnologia: il futuro dell’agricoltura?