Il peso invisibile della violenza: come i traumi si trasmettono nel DNA
La violenza non lascia solo cicatrici nella memoria, ma anche nel codice genetico. Questa affermazione, che potrebbe sembrare tratta da un romanzo di fantascienza, è in realtà il risultato di un’affascinante e inquietante scoperta scientifica. Studi recenti hanno dimostrato che le esperienze traumatiche possono lasciare un’impronta indelebile nel DNA delle vittime, un’impronta che può essere trasmessa alle generazioni successive. Questo fenomeno, noto come epigenetica transgenerazionale, suggerisce che la sofferenza non si esaurisce con chi la vive direttamente, ma continua a influenzare i discendenti in modi ancora non del tutto compresi.
Un esempio emblematico di questa eredità nascosta ci arriva da una ricerca pubblicata su Scientific Reports da un team di studiosi dell’Università della Florida. Lo studio ha analizzato gli effetti genetici del massacro avvenuto nella città siriana di Hama nel 1982, quando l’allora presidente Hafiz al-Asad represse brutalmente un tentativo di rivolta. I ricercatori hanno scoperto che il trauma vissuto dalle donne incinte durante l’assedio ha lasciato un’impronta genetica nei loro nipoti, che pur non avendo mai vissuto direttamente quegli eventi, ne portano comunque i segni nel loro DNA.
L’impronta genetica della violenza
L’analisi ha coinvolto 138 individui appartenenti a 48 famiglie siriane attualmente rifugiate in Giordania, suddivise in tre gruppi: il primo comprendeva famiglie che avevano vissuto l’assedio di Hama, il secondo raccoglieva coloro che avevano subito le violenze della recente guerra civile siriana, mentre il terzo includeva famiglie che si erano trasferite in Giordania prima degli anni ’80, evitando così i conflitti.
I risultati sono stati sorprendenti: nei nipoti dei sopravvissuti di Hama, i ricercatori hanno identificato 14 aree del genoma modificate in risposta alla violenza subita dalle loro nonne. Inoltre, lo studio ha individuato 21 siti epigenetici alterati nei genomi di coloro che avevano sperimentato direttamente la violenza in Siria. Questi cambiamenti genetici sembrano essere collegati a un invecchiamento epigenetico accelerato, una condizione che può aumentare la suscettibilità a malattie legate all’età, suggerendo che i traumi vissuti possano avere conseguenze biologiche a lungo termine.
Un destino scritto nel DNA?
Questo studio si inserisce in un filone di ricerche che da anni indaga la trasmissione epigenetica dello stress e del trauma. Già nel 2005, Rachel Yehuda, psichiatra della Mount Sinai School of Medicine, aveva dimostrato che i figli dei sopravvissuti ai lager nazisti avevano ereditato un’alterazione nella produzione del cortisolo, l’ormone coinvolto nel metabolismo e nella risposta allo stress. Questa scoperta suggeriva che le privazioni e le sofferenze vissute dalle madri durante la prigionia avevano lasciato un segno biologico nei loro figli e nipoti, rendendoli più vulnerabili a disturbi metabolici.
Tuttavia, gli scienziati sottolineano che non è ancora chiaro quale sia l’effetto concreto di questi cambiamenti epigenetici nella vita quotidiana delle persone. Sono necessari ulteriori studi per comprendere appieno le implicazioni di queste scoperte. Secondo gli autori della ricerca, queste informazioni potrebbero avere un impatto significativo non solo per comprendere le conseguenze della violenza sui rifugiati, ma anche per affrontare fenomeni come la violenza domestica, gli abusi sessuali e le guerre.
Un invito alla consapevolezza e all’empatia
L’idea che il trauma e la violenza possano trasmettersi biologicamente alle generazioni future solleva questioni profonde. Se i segni della sofferenza possono attraversare il tempo e incidere sulla salute e sul benessere dei discendenti, diventa ancora più urgente trovare soluzioni per prevenire e curare le ferite invisibili lasciate dalla violenza.
I ricercatori sperano che queste scoperte possano sensibilizzare non solo la comunità scientifica, ma anche i decisori politici e la società nel suo complesso. Comprendere che il dolore non si esaurisce in una sola generazione potrebbe portare a un approccio più empatico e consapevole nella gestione dei traumi collettivi, contribuendo a spezzare i cicli intergenerazionali di sofferenza e violenza che ancora oggi affliggono molte parti del mondo.