Esiste una malattia silenziosa, subdola e ancora poco conosciuta, che si manifesta tipicamente dopo i 50 anni e può trasformare il midollo osseo – la “fabbrica” del sangue – in un campo di battaglia interno. Si chiama sindrome VEXAS, e oggi, grazie a una svolta scientifica tutta italiana, iniziamo finalmente a comprenderne i meccanismi più profondi. Ma la strada verso una cura è ancora lunga.
Una malattia rara che colpisce migliaia di persone
Nonostante sia una malattia rara, la sindrome VEXAS potrebbe colpire fino a 1 persona su 4000, soprattutto uomini con più di 50 anni. Il numero può sembrare piccolo, ma per una malattia identificata solo di recente, è significativo.
Il nome, VEXAS, è un acronimo che racchiude le caratteristiche principali della patologia:
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Vacoules (vacuoli nelle cellule del midollo),
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E1 enzyme (enzima UBA1),
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X-linked (gene situato sul cromosoma X),
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Autoinflammatory (malattia autoinfiammatoria),
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Somatic (mutazione acquisita, non ereditaria).
Un gene mutato scatena il caos
Il cuore della malattia è una mutazione acquisita, legata all’invecchiamento, nel gene UBA1. Questo gene è responsabile della produzione di un enzima cruciale per la degradazione delle proteine nelle cellule. Quando la mutazione colpisce, le cellule staminali del sangue iniziano a comportarsi in modo anomalo.
Ma la mutazione non agisce da sola: innesca un processo infiammatorio che si autoalimenta e che finisce per intossicare anche le cellule sane del midollo osseo. Il risultato? Le cellule malate prendono il sopravvento, e il midollo smette progressivamente di funzionare correttamente.
Un avvelenamento interno
L’aspetto più inquietante della sindrome VEXAS è che il midollo osseo si autodistrugge lentamente, non per colpa di un agente esterno, ma per un vero e proprio “avvelenamento interno”. Le cellule mutate creano un ambiente così infiammatorio da impedire alle cellule sane di sopravvivere e moltiplicarsi.
Questo porta a una cascata di effetti devastanti:
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Anemia persistente, per carenza di globuli rossi;
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Piastrinopenia, con rischio di emorragie;
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Febbre ricorrente e inspiegabile;
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Lesioni cutanee;
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Infiammazione di polmoni, vasi sanguigni e cartilagini.
Un quadro clinico complesso e mutevole, spesso difficile da inquadrare e da diagnosticare.
La svolta arriva dal San Raffaele di Milano
Un team di ricerca italiano, guidato da Samuele Ferrari, in collaborazione con Luigi Naldini e Giulio Cavalli, ha fatto un passo avanti fondamentale nello studio della VEXAS. I ricercatori, appartenenti all’Istituto San Raffaele-Telethon per la Terapia Genica (SR-Tiget), hanno ricreato la malattia in laboratorio, introducendo la mutazione UBA1 in cellule staminali sane e trapiantandole poi in modelli animali.
Il risultato? Gli animali hanno sviluppato tutte le caratteristiche cliniche della sindrome, confermando che la mutazione è sufficiente a scatenare l’intero processo patologico. Ma non solo: si è anche visto come le cellule mutate soppiantino progressivamente quelle sane, avvelenandole con segnali infiammatori.
Questo meccanismo, simile a una guerra intestina tra cellule, spiega perché la malattia peggiora nel tempo e diventa così difficile da arrestare.
Perché colpisce soprattutto gli uomini?
La spiegazione risiede nel fatto che il gene UBA1 è localizzato sul cromosoma X. Le donne ne possiedono due, per cui una mutazione su uno dei due geni può essere compensata da quello sano. Gli uomini, invece, hanno un solo cromosoma X: se quel gene è mutato, non c’è “backup”. Ecco perché la VEXAS colpisce quasi esclusivamente i maschi.
Diagnosi difficile, ma sempre più possibile
Uno dei problemi principali della sindrome VEXAS è la diagnosi tardiva. Spesso viene confusa con altre malattie infiammatorie croniche, con disordini ematologici o autoimmuni.
Oggi però, grazie ai test genetici e alla crescente conoscenza della malattia, è possibile identificarla con più precisione. Il San Raffaele di Milano ha aperto un ambulatorio dedicato proprio alla sindrome VEXAS: un passo importante per riconoscere tempestivamente la malattia e offrire supporto specializzato ai pazienti.
E per la cura? La speranza arriva dalla terapia genica
Ad oggi non esiste una cura risolutiva. I trattamenti sono sintomatici: farmaci antinfiammatori, immunosoppressori, a volte trapianto di midollo osseo nei casi più gravi.
Ma la ricerca non si ferma. I modelli preclinici sviluppati a Milano permettono ora di testare nuove strategie terapeutiche, tra cui editing genetico mirato e terapie cellulari.
L’obiettivo è ambizioso: correggere la mutazione UBA1 direttamente nelle cellule del paziente, ripristinando un midollo osseo sano e funzionante. Una sfida che, fino a pochi anni fa, sembrava fantascienza, ma che oggi è all’orizzonte grazie alla biotecnologia.
Perché è importante parlarne
La sindrome VEXAS è ancora poco conosciuta, ma non è così rara come si pensa. In un mondo in cui la popolazione sta rapidamente invecchiando, è fondamentale sensibilizzare medici e cittadini su questa nuova entità clinica. Riconoscerla presto può salvare la vita.
E anche se oggi non abbiamo ancora una cura definitiva, la comprensione dei meccanismi molecolari della VEXAS rappresenta una rivoluzione scientifica. Perché non si tratta solo di una malattia del sangue: è una finestra su come l’invecchiamento, le mutazioni genetiche e il sistema immunitario si intrecciano nel destino delle nostre cellule.
La sindrome VEXAS ci ricorda che l’invecchiamento non è solo una questione estetica o di numeri: è un processo biologico complesso, in cui ogni cellula può trasformarsi in una minaccia se le condizioni lo permettono.
Ma ci insegna anche che la scienza, oggi più che mai, ha gli strumenti per decifrare l’impossibile. Dalla genetica alla terapia cellulare, la medicina del futuro è già all’opera per riscrivere il destino di malattie rare come la VEXAS.