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Alessandra Chiricosta: un altro genere di forza non è violenza

Alessandra Chiricosta, filosofa interculturalista, esperta in Gender Studies, studiosa di Storia delle religioni e Antropologia, è specializzata in culture del Sudest asiatico continentale e dell’Asia orientale.

Ha compiuto studi e ricerche sul campo in queste aree, lavorando in Vietnam per circa 10 anni.

Riflettiamo con lei sull’idea di forza, oggetto di studio per la filosofa, tema affrontato nel suo ultimo libro “Un altro genere di forza” edito da Iacobellieditore.

 

Il corpo delle donne come un fatto politico, l’ossessione dell’esibizione fisica, penso allo slogan “Il mio corpo è il mio manifesto” e il movimento Femen. Qual è la Sua opinione a riguardo?

Alessandra Chiricosta: “Come il movimento Femen e insieme alle altre attiviste dei coordinamenti femministi, ho la necessità di rimettere una centralità del corpo femminile come discorso politico. Il movimento Femen contempla la nudità come riappropriazione del corpo. Il mio lavoro sulla forza intesa come unione di mente e corpo intende dire qualcosa di diverso sulla condizione femminile di sofferenza e di piacere del Sé.

Il lavoro sul concetto di forza all’interno di pratiche che definiscono una relazione differente col mondo.

 Il corpo della donna è un atto politico laddove non devo sottostare a ciò che “dovrebbe essere” una donna e il suo corpo ma elaborare attraverso un percorso di acquisizione di nuova coscienza, la propria forza (corpo-mente) e i propri limiti, come sperimentazione, come pratica e scoperta condivisa”.

 

Il Suo libro “Un altro genere di forza” si presta a una riflessione sulla forza maschile e sull’uomo inteso non come “forte” ma “più forte” della donna. Un assunto e un paragone che sminuiscono il concetto di forza in sé, non esiste soltanto la forza fisica, e la donna, etichettata come “meno forte” di un uomo…

Alessandra Chiricosta: “Ho iniziato a riflettere sulla forza e su ciò che non viene detto dalla narrazione predominante.

Risalendo al Mito come racconto che si auto-avvera, ho analizzato un’analisi della narrazione di “Isidoro di Siviglia”.

Ebbene è evidente la necessità di assicurare e definire il maschile mediante una ricerca etimologica.

Risulta, allora, come il VIR sia forte e virtuoso all’interno però di una costruzione binaria dove la donna risiede nella debolezza come specchio minimizzato.

 La MULIER è la più molle.

Manca, però, una riflessione sulla forza in sé che viene intesa soltanto come esercizio di forza su qualcun altro.

La forza non è un esercizio di sopraffazione e di dominio, questa è soltanto una delle possibili visioni della forza che definirei tossica e dalla quale, gli uomini per primi, dovrebbero volersi liberare.

La capacità combattiva di difendere ciò che amo, non è sopraffazione bensì armonia, ne scaturisce una visione differente, quindi, del conflitto non come distruzione,  ritrovando una nuova centratura e dimensione”.

 

Lei ha studiato arti da combattimento come gong fu chu wu shu e muay thai.

Cosa le hanno insegnato?

 

Alessandra Chiricosta: “In primo luogo la visione del combattimento che ho sperimentato come ricerca diversa della forza.

Ho sperimentato come i corpi delle donne vivano dei veri blocchi psico-fisici, blocchi condizionati da un’impotenza potremmo dire, autoindotta, di proibizioni introiettate per cui non ci si sente autorizzate a compiere determinate azioni.

 In relazioni femministe ho potute vedere come sia possibile tematizzare attraverso una pratica culturale questi blocchi.

La ricerca, il conflitto conoscitivo per entrambi i combattenti non è altro che una crescita.

Le arti di combattimento includono un lavoro sui propri limiti e rappresentano un lavoro fisico e culturale.

In altre parole si attivano dei percorsi di autocoscienza combattente fuori dalle costrizioni”.

 

La violenza sulle donne è un atto di sopraffazione che vede un terribile sodalizio: virilità e violenza. Una donna si sente indifesa per una questione di natura culturale?

 

Alessandra Chiricosta: “È il mito della forza virile che diviene corpo.

Si tratta, secondo i miei studi, di radici culturali molto profonde.

Si tratta di ruoli, un argomento di grande complessità.

Avviene su tanti livelli il predominio del maschio, giustificandolo come “naturale” e “normale” mi chiedo: un uomo non si sente offeso da questa visione?

Se da una parte è offensivo, dall’altro, però, ha garantito per secoli una gerarchia e l’esercizio della “virilità”.

Il corpo è un luogo, e la mera prestanza fisica, così come mi ha insegnato il tai-chi non rappresenta un elemento determinante ma rientra nei limiti di cui parlavamo prima.

Uscire, allora, dall’onnipresenza culturale della forza virile è un passo”.

 

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