Alimentazione

Caffeina non provoca aritmia

L’assunzione di caffeina non determina un’alterazione del battito cardiaco.

Seppur sia pensiero comune e diffuso che il consumo di caffè possa favorire l’insorgere di aritmie cardiache, in ambito scientifico, non ci sono prove sufficienti in grado di dimostrarlo.

In altre parole, così come scrive la rivista Nutrition Foundation of Italy non esiste una correlazione certa tra assunzione di caffeina e questa patologia.

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In realtà, la Scienza dimostra come il caffè e di conseguenza la caffeina, possieda piuttosto, un potenziale effetto protettivo sul cuore e il battito cardiaco.

Scrive la rivista: “L’assenza di un rapporto diretto tra il consumo di caffè e la comparsa di aritmie emerge anche dall’analisi dei dati raccolti in questo recente studio prospettico di coorte, condotto in un campione di 386.258 persone sane, senza diagnosi di aritmie, afferenti alla UK Biobank, che sono state raggruppate in base agli abituali livelli di consumo di caffè in 8 categorie (da nessuna a 6 o più tazze al giorno)”.

Dallo studio è emerso non solo che l’apporto più elevato di caffè non era direttamente collegato con un aumento del rischio di sviluppare aritmie, confermando i risultati di studi precedenti, ma che ad ogni tazza consumata in più al giorno la probabilità di andare in contro a un episodio aritmico si riduceva del 3%, mostrando quindi tra i bevitori di caffè una piccola ma significativa riduzione del rischio.

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Queste osservazioni, che risultano supportate da altre evidenze di crescente consistenza, mettono in dubbio le comuni raccomandazioni secondo le quali bisognerebbe limitare il consumo di caffè per diminuire il rischio di incorrere in episodi aritmici.

Queste raccomandazioni potrebbero tra l’altro precludere ad alcune persone l’accesso all’effetto protettivo che i consumi di caffè svolgerebbero nei riguardi di alcune patologie degenerative.

“Naturalmente, così come concludono gli autori, i risultati di questo studio vanno interpretati con cautela, soprattutto a causa della mancanza di informazioni dettagliate relative al tipo di caffè consumato (decaffeinato, espresso o altri) e della durata dell’osservazione, pari a 4 anni, che non ha permesso di valutare possibili effetti a lungo termine”.

 

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